CRONACA DI UN INCENDIO AVVENUTO A TORINO NELLA NOTTE DEL 27 GENNAIO 1880

 

L’incendio

Questa mattina io avevo finito di copiare la mia parte del racconto Dagli Appennini alle Ande, e stavo cercando un tema per la composizione libera che ci diede da fare il maestro, quando udii un vocio insolito per le scale, e poco dopo entrarono in casa due pompieri, i quali domandarono a mio padre il permesso di visitar le stufe e i camini, perché bruciava un fumaiolo sui tetti e non si capiva di chi fosse. Mio padre disse: - Facciano pure -, e benchè non avessimo fuoco acceso da nessuna parte, essi cominciarono a girar per le stanze e a metter l’orecchio alle pareti, per sentire se rumoreggiasse il foco dentro alle gole che vanno su agli altri piani della casa.

E mio padre mi disse, mentre giravan per le stanze: - Enrico, ecco un tema per la tua composizione: i pompieri. Provati un po’ a scrivere quello che ti racconto. Io li vidi all’opera due anni fa, una sera che uscivo dal teatro Balbo, a notte avanzata. Entrando in Via Roma, vidi una luce insolita, e un’onda di gente che accorreva; una casa era in fuoco: lingue di fiamma e nuvoli di fumo rompevan dalle finestre e dal tetto; uomini e donne apparivano dai davanzali e sparivano gettando grida disperate; c’era un gran tumulto davanti al portone; la folla gridava: - Brucian vivi! Soccorso! I Pompieri! - Arrivò in quel punto una carrozza, ne saltaron fuori quattro pompieri, i primi che s’erano trovati al Municipio, e si slanciarono dentro alla casa. Erano appena entrati, che si vide una cosa orrenda: una donna s’affacciò urlando a una finestra del terzo piano, s’afferrò alla ringhiera, la scavalcò e rimase afferrata così, quasi sospesa nel vuoto, con la schiena in fuori, curva sotto il fumo e le fiamme, che fuggendo dalla stanza le lambivan quasi la testa. La folla gettò un grido di raccapriccio. I pompieri, arrestati per isbaglio al secondo piano dagli inquilini atterriti, avevan già sfondato un muro e s’eran precipitati in una camera; quando cento grida li avvertirono: - Al terzo piano! Al terzo piano! - Volarono al terzo piano. Qui era un rovinio d’inferno: travi di tetto che crollavano, corridoi pini di fiamme, un fumo che soffocava. Per arrivare alle stanze dov’eran gli inquilini rinchiusi non restava altra via che passar pel tetto. Si lanciarono subito su, e un minuto dopo si vide come un fantasma nero saltar sui coppi, tra il fumo. Era il caporale arrivato il primo. Ma, per andare dalla parte del tetto che corrispondeva al quartierino chiuso dal fuoco, gli bisognava passare sopra un ristrettissimo spazio compreso tra un abbaino e la grondaia; tutto il resto fiammeggiava, e quel piccolo tratto era coperto di neve e di ghiaccio, e non c’era dove aggrapparsi. - E’ impossibile che passi! - gridava la folla di sotto. Il caporale s’avanzo sull’orlo del tetto: - tutti rabbrividirono, e stettero a guardar col respiro sospeso: - passò: - un immenso evviva salì al cielo. Il caporale riprese la corsa, e arrivato al punto minacciato, cominciò a spezzare furiosamente a colpi d’accetta coppi, travi, correntini, per aprirsi una buca da scender dentro. Intanto la donna era sempre sospesa fuor dalla finestra, il fuoco le infuriava sul capo, un minuto ancora, e sarebbe precipitata nella via. La buca fu aperta: si vide il caporale levarsi la tracolla e calarsi giù; gli altri pompieri, sopraggiunti lo seguirono. Nello stesso momento un’altissima scala porta, arrivata allora, s’appoggiò al cornicione della casa, davanti alle finestre da cui uscivano fiamme e urli da pazzi. Ma si credeva che fosse tardi. - Nessuno si salva più, - gridavano -. I pompieri bruciano. - E’ finita. - Son morti. - All’improvviso si vide apparire alla finestra della ringhiera la figura nera del caporale, illuminata di sopra in giù dalle fiamme; la donna gli s’avvinghiò al collo, egli l’afferrò con tutt’e due le braccia, la tirò su, la depose dentro alla stanza. La folla mise un grido di mille voci, che coprì il fracasso dell’incendio.

Ma e gli altri? E come discendere? La scala, appoggiata al tetto davanti a un’altra finestra, distava dal davanzale un buon tratto. Come avrebbero potuto attaccarvisi? Mentre questo si diceva, uno dei pompieri si fece fuori dalla finestra, mise il piede destro sul davanzale e il sinistro sulla scala, e così ritto per aria, abbracciati ad uno ad uno gli inquilini, che gli altri gli porgevan di dentro, li porse a un compagno, ch’era salito su dalla via, e che attaccatili bene ai pioli, li fece scendere, l’uno dopo l’altro, aiutati da altri pompieri di sotto. Passò prima la donna della ringhiera, poi una bimba, un’altra donna, un vecchio. Tutti eran salvi. Dopo il vecchio, scesero i pompieri rimasti dentro; ultimo a scendere fu il caporale, che era stato il primo ad accorrere. La folla li accolse con uno scoppio di applausi; ma quando comparve l’ultimo, l’avanguardia dei salvatori, quello che aveva affrontato innanzi agli altri l’abisso, quello che sarebbe morto, se avesse dovuto morire, la folla lo salutò come un trionfatore, gridando e stendendo le braccia con uno slancio affettuoso d’ammirazione e di gratitudine, e in pochi momenti il suo nome oscuro - Giuseppe Robbino - suonò su mille bocche... Hai capito? Quello è coraggio, il coraggio del cuore, che non ragiona, che non vacilla, che và diritto cieco fulmineo dove sente il grido di chi muore. Io ti condurrò un giorno agli esercizi dei pompieri, e ti farò vedere il caporale Robbino; perché saresti molto contento di conoscerlo, non è vero?

Risposi di sì.

- Eccolo qua, disse mio padre.

Io mi voltai di scatto. I due pompieri, terminata la visita, attraversavan la stanza per uscire.

Mio padre m’accennò il più piccolo, che aveva i galloni, e mi disse:

- Stringi la mano al caporale Robbino.

Il caporale si fermò e mi porse la mano, sorridendo: io gliela strinsi; egli fece un saluto ed uscì.

E ricordatene bene, - disse mio padre -, perché delle migliaia di mani che stringerai nella vita, non ce ne saranno forse dieci che valgan la sua.

 

 

da un racconto tratto dal libro Cuore

di E. De Amicis